Campus Mei: In-Formazione musicale // ”L’eleganza del disco”, la rubrica di Francesca Amodio: intervista a Blindur e recensione di “Una primavera” de L’Introverso
Intervista: Blindur – “Blindur” (“La Tempesta Dischi”, 2017)
I testi dei Blindur coniugano un linguaggio del concreto con un linguaggio più metaforico e contemporaneo, in italiano. Che tipo di ricerca testuale c’è dietro una canzone?
Siamo letteralmente malati per la scrittura. Siamo fissati con la forma canzone, e quindi con le rime, le strutture, ci piace che il testo sia musicale ma anche che possa avere un senso da solo; possiamo stare anche sei mesi su una parola, finché non si trova quella che “suona” bene: spesso una canzone può essere bellissima da ascoltare, ma si rimane perplessi quando la si va a leggere, è questo che noi evitiamo ed è per questo che scriviamo in italiano. Molti ad esempio scrivono in inglese con la speranza di scappare dall’Italia, ma ciò con cui bisogna fare i conti poi è il fatto di misurarsi con i madrelingua, sicuramente più credibili; a proposito di questo, ci piace sempre riportare l’esempio dei Rokes, una band inglese degli anni sessanta venuta a cantare da noi in italiano: dal punto di vista linguistico, inascoltabili. Poi per quanto ci riguarda, avendo sperimentato già com’è cantare in italiano all’estero, ed essendoci andata bene, continuiamo allora su quel fronte. D’altronde l’inglese che conosciamo è quello che abbiamo appreso viaggiando e l’italiano è la nostra lingua, ci appartiene, e scrivere diversamente sarebbe stato assolutamente innaturale.
In “Vanny” parlate di provincia. Che rapporto avete con quella partenopea da cui voi provenite?
Sicuramente un rapporto di amore e di odio. Da una parte la provincia è una gabbia, dall’altra quello dei provinciali è quasi un mondo a sé stante, in cui bene o male devi crearti un tuo universo per sopravvivere. Paradossalmente, per quanto il più delle volte possa essere opprimente, il paese, anche se ci manca raramente, è l’unico posto che possiamo chiamare e considerare “casa”, l’unico in cui non ci sentiamo mai turisti come quando andiamo anche semplicemente nella città vicina. Che ci piaccia o meno, il paese è l’unico posto di cui sentiamo davvero la nostalgia nel momento in cui manchiamo.
Quali sono state nel vostro caso le prime difficoltà incontrate per emergere nel panorama musicale giovanile italiano?
Il nostro intento è sempre stato unicamente quello di suonare il più possibile, in qualunque condizione o situazione, quindi onestamente siamo stati sempre abbastanza consapevoli di ciò e abbiamo suonato moltissime volte per due lire, spesso neanche per quelle, proprio perché, appunto, l’obiettivo era quello di suonare e di farci conoscere. È nelle band più giovani di noi che spesso riscontriamo disprezzo e disagio nei confronti delle “prime volte”: molti vorrebbero suonare direttamente sul palcoscenico enorme, con la platea piena e l’impianto da urlo. Non è così che funziona. Noi abbiamo iniziato da localini microscopici, proponendo brani inediti a poco a poco, pensando sempre in primis alla musica e poi a tutto il resto. Il problema di molti giovani musicisti di oggi è che pensano prima a tutto il resto ed in ultimo alla musica, per questo poi sorgono le difficoltà.
Come è nato l’incontro con “La Tempesta Dischi”?
Se siamo con “La Tempesta” lo dobbiamo alla nostra perseveranza: ci trovavamo a suonare al “Gattò” di Milano per la prima volta, in una data presa per quattro soldi con il rischio di suonare per zero persone; decidemmo di suonare “Occhi bassi” dei Tre Allegri Ragazzi Morti, una canzone che avevamo nel repertorio e alla quale siamo molto legati, con il risultato che il giorno dopo la band ha postato un video registrato dal direttore artistico del locale con la nostra versione della canzone. Da lì è partita la nostra bella avventura, e questo per dire che, se avessimo fatto gli spocchiosi, nulla di tutto ciò sarebbe successo.
Tra X – Factor e il Festival di Sanremo cosa scegliereste, e perché?
Nonostante non amiamo nessuno dei due format, probabilmente sceglieremmo Sanremo, anche se, quantomeno sulla carta, è X – Factor il programma con più potenziale: le canzoni per Sanremo devono avere tutte un certo canone e determinate caratteristiche legate ovviamente alla forma canzone italiana, teoricamente invece dal talent – show potrebbe uscire fuori di tutto, dalla popstar alla rock band. Però, forse anche per il fatto che il talent dura di più nel tempo, e quindi ci appare più come una sorta di reality, alla fine opteremmo per la settimana sanremese. Quando pensiamo a Sanremo ci viene sempre in mente l’esperienza che ha avuto lì una band che amiamo e stimiamo molto, gli Afterhours, esperienza pazzesca sotto ogni punto di vista, che hanno fatto benissimo a fare. Ecco, visto in quell’ottica lì, il Festival di Sanremo ci sembra in qualche modo più vicino a ciò che siamo e a come amiamo definirci, ossia “musicisti da furgone”, quelli che macinano chilometri e chilometri smontando e montando strumenti di continuo, sempre ben contenti di farlo.
Francesca Amodio
Recensione: L’Introverso, “Una primavera”
Fatidico scoglio del secondo disco ampiamente superato per il quartetto della periferia di Milano L’Introverso, al secolo Nico Zagaria (voce e chitarra), Marco Battista (chitarra), Futre (basso) e Roberto Yamamoto (batteria) con il loro “Una primavera”, che arriva a due anni dal fortunato esordio discografico “Io”.
Uscito per Ruggito Music e prodotto da Davide “Divi” Autelitano dei Ministri, “Una primavera” è un album di undici tracce in italiano scorrevole e godibile, lineare e senza sbavature, che si lascia ascoltare con curiosità ed interesse.
Tra ritornelli trascinanti, di quelli perfettamente radiofonici che rimangono in testa (“Solo questa notte”) e brani più concettuali come l’interessantissima “Una primavera”, fra i brani con il miglior testo dell’album, il pop proposto da L’Introverso è benfatto e ben confezionato, sulla scia degli ultimi Tiromancino e le ballate dei Fast Animals And Slow Kids.
Sebbene alcune schegge di acerbità continuino a imperversare in particolare nella scrittura testuale generica, le sonorità del disco rielaborano un brit pop più propriamente italico suonato molto bene, in cui emerge comunque la forte personalità della band, che del resto sceglie una direzione musicale precisa che coerentemente porta avanti con decisione attraverso tutti i brani che eterogeneamente compongono l’album.
Indubbiamente L’Introverso è uno di quei giovani gruppi da tenere sott’occhio all’interno del panorama delle band cantautorali attuale, in quanto c’è molto terreno fertile attraverso cui sperimentare ed osare, e quindi sorprendere.
Tracce migliori: “Una primavera”, “Estranea”, “Solo questa notte”
Voto: 7.5
Francesca Amodio