Campus MEI: in-formazione musicale // Doc Indie: maledetta omologazione!
O meglio, maledetti “omologatori”! Questa volta prendo spunto da Maledetti architetti, saggio del 1981 del giornalista e romanziere statunitense Tom Wolfe, l’autore de Il falò delle vanità, il capolavoro sulla Eighties Life. Dovunque mi giri – e vi posso assicurare che nella torsione non sono affatto solo – trovo unicamente cloni. Roba da Star Wars! Avevo già inveito tempo fa contro la mancanza di originalità, ma, in questo specifico caso, la questione pare ben più grave e radicata. Per essere “originali” o, se preferite, “non originali” un guizzo bisogna pur sempre averlo. Non parlo di coraggio ma semplicemente di un trillo tra un neurone e l’altro. <Pronto come stai? Tutto bene? Facciamo qualcosa di nuovo? Oppure rimaniamo comodamente seduti sugli allori?> Con il concetto di omologazione, invece, vi è la più totale assenza dell’umano sentire. Manca con ogni evidenza qualunque guizzo; manca la paura di sbagliare; manca, e qui arrivo al punto, lo stesso concetto di “umano.” L’omologazione replica stancamente l’esistente tenendosi lontana da qualunque sentimento positivo o negativo che sia. E un’osservazione passiva priva di thrilling che tende a riprodurre l’esistente a qualunque costo incurante dell’incedere del tempo. Voci che assomigliano a tatuaggi trasferibili; suoni piatti e non incisivi; nomi di band e artisti che non evocano nulla se non il concetto stesso della stanchezza poc’anzi citata.Tutto rinasce stancamente com’era prima. Non c’è miglioramento e nemmeno peggioramento! Non un sospiro di vita. Oggetti – dischi e CD, per l’esattezza – che nascono già morti ma si ostinano a una breve e piatta vita lontano dal radar delle emozioni. Come grattacieli, ed ecco che ritorna il Tom Wolfe di Maledetti architetti, che si rispecchiano l’un nell’altro senza nemmeno possedere l’aspirazione di essere più alti e slanciati dei vicini. La discografia di oggi è uno degli imputati per la diffusione del virus dell’omologazione a tutti i costi, certamente, ma lo sono anche gli artisti, molti, ahimè, che la assecondano nel business plan. Chi rischia, ovviamente, non è ben visto, e nessuno oggi dice di avere il tempo di aspettare che il fiore sbocci e con esso porti buoni frutti musicali. Si consuma voracemente tutto acerbo incuranti del sapore del suono. Lo scenario è desolante e mi deprime, come negarlo, ma qualcosa si può ancora fare. Ad esempio, tornare contadini e attendere il corso delle stagioni e con esse degli album potrebbe essere un inizio; seguire pazientemente i giovani senza bruciarli; tornare a vivere la musica con tutte le sue emozioni di gioia e di paura. Ma, senza esagerare e attendere che il frutto cada, ormai appassito, dal ramo.