Campus Mei: in-formazione musicale // Doc Indie n° 5: I negozi di dischi salveranno la musica
DOC INDIE: I NEGOZI DI DISCHI SALVERANNO LA MUSICA
Non si tratta di nostalgia à la Nick Hornby. Quelle pagine sono già state scritte e stampate in un periodo in cui la musica godeva ancora di un’ottima salute. Si tratta, né più né meno, di un’osservazione. Una semplice constatazione, forse un po’ di parte, lo ammetto, ma fondata sulla lunga frequentazione di negozi di dischi sparsi in giro per il mondo. È in quelle sedi, i “vecchi” record stores, che tutti, prima o poi, cominciano a conoscere i gusti musicali degli altri. A cominciare dai titolari. E sono proprio quest’ultimi, quelle splendide persone spesso sedute dietro piccoli banconi affollati di pagine pericolanti di CD, annunci di concerti e volantini di band emergenti, che si sono sobbarcati la difficile missione di salvare la musica. La loro non è una crociata, piuttosto è una missione in stile Blues Brothers. Che si chiamino Maurizio o Gigi, che lavorino al calduccio in 40 metri quadrati nei pressi di un mercato all’aperto o al freddo dietro le paratie metalliche di un chiosco vista cattedrale, sono loro a continuare lo spirito pionieristico del rock. Sono loro che nel momento di incertezza dell’avventore – sempre schiacciato tra il desiderio di sperimentare e la comodità di voci dal sapore televisivo – tirano fuori l’asso dalla manica aprendo scenari fino allora sconosciuti. Sornioni come gatti di strada, la buttano lì: <Perché non provi ad ascoltare questo?>. Sicuri, in quello stesso istante, di avere fatto breccia nel cuore del cliente. Se Luke Skywalker possiede la forza, allora loro, i titolari dei pochi negozi di dischi sopravvissuti, possiedo l’intuito. Un intuito formidabile e quasi sempre infallibile sui gusti altrui. Amano la magia dei vecchi vinili ma al contempo apprezzano la comodità dei CD. Sono creature sospese tra passato e futuro ma avide delle note del presente. Quel lavoro se lo sono scelto e, per quanto sia dura in questi giorni, non si lamentano più di tanto. Bastano due chiacchiere per fare abbassare la puntina e fare partire il fruscio di Bitches Brew o di Led Zeppelin I. Ancora meno per schiacciare play e dare spazio a uno sconosciuto artista indipendente che un giorno, passando di lì, ha lasciato in omaggio qualche copia del proprio lavoro. A garantire la sopravvivenza di questi santuari, sparsi un po’ qua e un po’ là per tutti i continenti, è la dimensione profondamente umana del loro contesto, l’atmosfera intima e complice che in essi comunque sempre si crea. In questo ambiente fluido, che ricorda molto una taverna medioevale, il metallaro scoprirà magari gemme nascoste dell’hard rock anni Sessanta e il rockettaro proverà sorpresa nel riconoscersi in Roots dei Sepultura. Che siano nuovi o usati (garantiti), i prodotti esposti sugli scaffali sapranno come rompere il sortilegio del meccanico linguaggio delle offerte del web e vi insegneranno la lingua universale della musica. Poco importa, allora, se spenderete – ammesso che poi sia davvero così – un paio di euro in più rispetto ai rivenditori on-line.