Le Nostre Rubriche // Exitwell in esclusiva per il Mei: Intervista a Pierpaolo Capovilla
Abbiamo assistito alla tua performance con La religione del mio tempo. Perché hai scelto di girare l’Italia con questo testo, e quanto in esso c’è di attuale rispetto alla nostra condizione culturale e socio-economica?
La religione del mio tempo è un lavoro di grande attualità, anche a più di cinquant’anni dalla sua pubblicazione. Pier Paolo Pasolini era furioso con il proprio paese: nel suo film La ricotta affermava – per bocca di Orson Welles – che l’Italia era composta dal “popolo più analfabeta e dalla borghesia più ignorante d’Europa”. Penso che questa affermazione sia ancora valida: abbiamo fallito ogni tentativo di modernizzare in nome dell’uguaglianza e della giustizia questo Paese, disperdendo fin dagli anni ‘50 i valori della Resistenza ed abbracciando quelli del consumismo più sfrenato e dell’arrampicamento sociale. In sessant’anni questo processo ha fatto passi da gigante: dopo Tangentopoli, invece di dire stop alla corruzione, ci siamo ritrovati l’ascesa del berlusconismo e adesso ne paghiamo il prezzo. Un Paese che uccide i suoi poeti non ha futuro. Pasolini è stato ucciso tante volte: dal suo assassino, dalla stampa, dai partiti, dagli pseudo intellettuali. Era comunista, cattolico e gay: insopportabile, “troppo” per il contesto italiano. Se fosse ancora vivo probabilmente inorridirebbe di fronte al degrado a cui siamo arrivati, purtroppo è morto e non ce lo riporterà indietro nessuno, ma noi abbiamo il dovere di ricordarne la figura etica, morale ed intellettuale.
Non è purtroppo l’unica figura di cui si è fatto scempio e di cui si sono utilizzate le parole e le opere in modo strumentale.
“Sventurato quel paese che ha bisogno di eroi”. Pasolini a suo modo è stato un eroe così come lo sono stati tanti altri: don Puglisi, Peppe Diana, anche Aldo Moro, se vogliamo.
I giganti ci sono ancora, in realtà: il problema è che il paese è degradato, si è andato sfarinando, disgregando. Viviamo in una società che non ha più alcun tipo di coesione: è il “tutti contro tutti”. Credo in una società in cui lo stato abbia un ruolo economico e politico vero, sano e giusto: l’esatto contrario di ciò che siamo diventati.
Si dice che è nei momenti di crisi che si trovano le vere opportunità. Tu ne vedi o pensi che siano di là da venire?
Dobbiamo rimboccarci le maniche perché c’è un lavoro lunghissimo da fare, però io sono ottimista, penso che questo paese si possa rialzare, culturalmente e politicamente. Interpreto il mio lavoro in questo senso: la buona musica e la buona canzone popolare possono avere un ruolo edificante all’interno del tessuto sociale. La musica è salvifica, salva i cuori e le persone, da essa possiamo ripartire, immaginando una società diversa e più giusta.
Ma se l’arte è salvifica ed è lo specchio della società in cui viviamo, perché quest’ultima ha completamente dismesso tutto ciò che non porta guadagno?
Viviamo in una società miope – se non cieca – di fronte all’arte e alla cultura. Fino a qualche tempo fa abbiamo avuto un ministro dell’economia, un certo Tremonti, che diceva che con la cultura non si mangia. Non è vero, con la cultura si mangia eccome. Non volere investire nella cultura è semplicemente stupido. E rende stupidi. Con la cultura noi facciamo i cittadini, con il costume facciamo i consumatori. Vogliamo essere consumatori o cittadini? È una scelta: la mia vita è nelle mie mani, la nostra è nelle nostre mani. Viviamocela bene, questa benedetta e maledetta vita.
Anche alcune tue scelte professionali – ad esempio il passaggio dall’inglese all’italiano oppure la mescolanza tra approccio teatrale e musicale, o lo stessa reading dell’opera di Pasolini – sono evidentemente volte a questo.
Io cerco di fare cultura e credo in quello che faccio. Mi pavoneggio da tanti anni sui palcoscenici ma nel mio narcisismo ho sempre creduto: non è fine a se stesso. Se lo fosse, se fosse vero narcisismo, ne sarei stato inghiottito.
Nello scorso numero abbiamo intervistato Michael Pergolani e Renato Marengo di Demo, trasmissione di Radio 1 che permetteva alla musica emergente di farsi trasmettere sulla maggiore radio nazionale e che è stata cancellata dal palinsesto senza che i suoi autori venissero avvertiti. In questa occasione c’è stata una mobilitazione generale fortissima, attraverso concerti, sul web, e molto altro. Pensi che questo tipo di mobilitazione possa contribuire a dare una vera svolta alla diffusione della musica di qualità italiana?
Ben vengano le mobilitazioni. A mio avviso ci vorrebbero delle leggi che obblighino definitivamente i media italiani a trasmettere la musica italiana, non per nazionalismo – non me ne importa nulla della “patria”, sono cittadino del mondo – ma perché solo in questo modo riusciremo a reintrodurre dei validi contenuti nella musica leggera e popolare, che deve essere vissuta in maniera sincera e onesta, deve essere cantata in italiano, dobbiamo poterla capire e deve raccontarci qualcosa: la nostra storia, le circostanze in cui viviamo. Altrimenti non serve a niente. Lo vediamo ogni giorno dalla televisione: ai ragazzi mancano i mezzi culturali per capire ciò che fanno, nella vita e nella musica. Sono pigri. Per fare un serio percorso personale bisogna acculturarsi e chiedersi cosa si stia facendo. Se l’obiettivo è cambiare il mondo non bisogna essere pigri.
C’è un’accelerazione nel mondo che va al di là di quella tecnologica. Le persone hanno perso la concentrazione, ormai per comunicare con tutti parlando di tutto bastano i 140 caratteri di Twitter…
Internet 15 anni fa rappresentava una spettacolare occasione di democratizzazione dell’informazione e di maggiore interscambio culturale. Sembrava potesse essere un’alternativa decisiva, cruciale alla disinformazione e invece è diventato peggio. Io a 46 anni non ho figli, ma se li avessi e passassero otto ore della loro giornata su Facebook butterei loro via il computer dalla finestra e direi: “Andatelo a comprare da soli”. Non è giusto alienarsi così, ma è il capitalismo a spingerci all’autoalienazione, al “feticismo della merce”.
Pensi possa esserci una svolta a livello politico? Il sistema imploderà e diventerà qualcos’altro?
Già con la seconda guerra mondiale sembrava fosse giunta l’implosione definitiva del sistema capitalistico, ma non è stato così. Il mondo non è cambiato, anzi è peggiorato, si è finanziarizzato. La rivoluzione non la faremo mai, il mondo non diventerà mai come vogliamo, ma questo non ci impedisce di lottare, perché darsi un obiettivo, soprattutto se utopistico, è giusto. Perché la lotta, il combattere le circostanze in cui viviamo e lavorare per un futuro più bello, più giusto e più uguale è quanto fa della nostra vita una vita degna. Arrendersi è brutto, lottare è bellissimo. E anche divertente, diciamo la verità. Penso a Jacques Lacan, che parlava degli ideali rivoluzionari come una straordinaria forma collettiva di desiderio: il desiderio di qualcos’altro, di più bello, di più giusto, di un mondo dove vivere meglio. Se rinunciamo ai desideri rinunciamo a vivere.
C’è quindi un po’ di speranza per tutti noi, per capire come fare musica e per fare qualcosa di buono in questo paese?
Per me avere una band è stata una palestra di democrazia. Quando vado in sala prove, portando una mia idea di un pezzo, già so che l’interazione tra più cervelli e più personalità e culture la farà diventare qualcosa di completamente diverso, perché l’abbiamo fatta insieme. Fare musica significa cooperare, non semplicemente collaborare, lavorare insieme, ma darsi un obiettivo comune insieme, anche sconosciuto. Ciò che conta è il percorso che si fa insieme, non il successo. Esistono persone che credono in quello che fanno e quelli che lo fanno tanto per fare. C’è gente che vive la vita tanto per viverla, senza un minimo di coscienza. C’è gente schifosa in giro, orribile. Ci sono i deficienti e poi ci sono le persone, le persone vere. Per questo processo sono importantissimi i mezzi culturali. Quel che più mi addolora di questi anni è stato il calpestare l’istruzione pubblica del paese in favore di una neopedagogia dei media: un processo ideato dalla P2, ecco! Per il male lavorano i cervelli più raffinati che possiate immaginare, quelli capaci di far scoppiare una guerra: sta a noi capire che la nostra vita è nelle nostre mani. Tutto questo è talmente ovvio da essere pericoloso.
Ringraziamo Pierpaolo Capovilla per la sua disponibilità e per la piacevole chiacchierata che ha voluto avere con noi.
Flavio Talamonti & Riccardo De Stefano